Sebbene esista già dalla fine degli anni ’90, la parola neurodiversità sta ora conquistando sempre di più il dibattito pubblico. Essa fornisce infatti un nuovo modo di pensare alla ricchezza del genere umano, strettamente legato alle caratteristiche specifiche individuali che ogni persona porta con sé. La neurodiversità dunque ha ripercussioni dirette nella vita sociale che viviamo tutti i giorni – soprattutto quando siamo o conosciamo persone neuroatipiche.
Ma qual è la storia del termine “neurodiversità”? E cosa significa esattamente neuroatipicità? In questo articolo vedremo:
Nonostante esista ormai da 20 anni circa, la parola “neurodiversità” è considerata un neologismo. Essa venne infatti inventata nel 1998 dalla sociologa australiana Judy Singer, che prese ispirazione dalla Convenzione sulla Diversità Biologica del 1992: nel testo approvato a Rio de Janeiro venne definita la “biodiversità” come “variabilità tra gli organismi viventi di ogni origine […]; ciò comprende la diversità in una stessa specie e tra ecosistemi”.
Partendo da questa premessa, Singer declinò per la prima volta questo concetto per le diverse forme che può assumere la psiche umana in moltissimi suoi aspetti:
- Neurologici;
- Sensoriali;
- Comunicativi;
- Sociali.
Il termine, pur originariamente ideato da Singer, venne proposto ufficialmente al grande pubblico per la prima volta dal giornalista e scrittore Harvey Bloom. Egli, amico della sociologa australiana, non la citò ma prese spunto dalle loro conversazioni sull’autismo per stendere un articolo pubblicato il 30 settembre 1998 sul The Atlantic.

L’idea che i due amici condividevano era che gli esseri umani sono necessariamente e per natura diversi tra di loro, motivo per cui i percorsi neurologici che adottano non sono mai perfettamente sovrapponibili. In questo contesto, l’idea di “diversità” vuole indicare che non c’è un modo giusto o sbagliato di pensare e sentire, ma che esistono solo modalità diverse di percepire e interagire con la realtà circostante. Di conseguenza, tutti i percorsi neurologici hanno pari dignità e possono essere perfettamente funzionali, anche quando non corrispondono a quelli adottati dalla maggioranza.
Il concetto di neurodiversità è dunque generico e comprende gli esseri umani nel loro insieme, senza creare alcuna differenziazione in base a determinate caratteristiche. Nonostante l’eterogeneità umana, però, si può osservare come una fetta significativa della popolazione – stimata tra l’80 e l’85% - condivide alcuni schemi neurologici abbastanza definiti. Chi rientra in questa macrocategoria segue un percorso di sviluppo neurologico tipico – in linea con le caratteristiche condivise con la maggioranza delle persone.

La fetta restante della popolazione – ovvero chi non rientra in questi schemi – viene per contrasto definito neuroatipico o neurodivergente. In altre parole, più tecniche ma altrettanto comprensibili, il sistema nervoso di una persona neuroatipica segue, specialmente in alcune aree celebrali, dei percorsi differenti da quelli individuabili comunemente. L’appartenenza ad una minoranza non deve però indurre a pensare che questi schemi siano meno validi o automaticamente penalizzanti.
La definizione di persona neurodivergente è estremamente ampia. All’interno del 15-20% di persone che seguono schemi neurologici differenti si trovano, infatti, casistiche (e dunque realtà) estremamente diverse. Per l’aggiunta, sebbene il termine sia nato con l’idea di descrivere lo spettro autistico, con il tempo esso si è evoluto per comprendere anche altri tipi di diagnosi. Ad oggi, ad esempio, si inquadrano nella neuroatipicità:
- Le persone autistiche;
- Le persone con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA);
- Le persone con sindrome di Tourette;
- Le persone con ADHD o disturbo da deficit dell’attenzione (ADD).
Un errore da non commettere è quindi credere che tutte le persone neuroatipiche siano descrivibili con caratteristiche fisse. Ciò è molto importante non solo per quanto riguarda gli schemi neurologici, ma anche – e probabilmente soprattutto – quando si tratta di ambito sociale, sensoriale e comunicativo.

Mentre gli aspetti prettamente neurologici (compresi quelli legati all’apprendimento) toccano solitamente la sfera più privata delle persone neuroatipiche, gli schemi sociali, sensioriali e comunicativi influenzano in modo più diretto l’interazione con le altre persone. Proprio per questo è importante andare oltre i pregiudizi e le etichette preconfezionate che spesso vengono associate alle persone neuroatipiche per accogliere gli schemi specifici di ogni individuo.
Uno dei fini con cui è stato coniato il termine neurodiversità è quello di travalicare i confini legati alla psichiatria e iniziare a considerare le persone neuroatipiche come individui a 360°. In aggiunta, secondo questo nuovo modello, alcuni aspetti dei disturbi sopra elencati diventano difficoltà solo in relazione all’ambiente circostante e alla necessità di adattarsi ad un sistema fatto su misura della maggioranza.
Questa idea rende particolarmente chiaro il perché, all’inizio della sua storia, neurodiversità non era solo una parola; al contrario, rappresentò da subito un vero e proprio movimento che si batteva per il riconoscimento dei diritti delle “minoranze neurologiche”. In questo contesto, come sottolineato dall’università di Harvard, il peso riconosciuto all’uso delle parole è particolarmente importante perché aiuta ad evitare facili generalizzazioni.
Così come per altre minoranze, conoscere il vocabolario specifico della neurodiversità consente di comunicare con rispetto e attenzione nei confronti del prossimo. Inoltre, è importante ricordare che i sistemi linguistici che utilizziamo sono fondamentali nel plasmare la nostra percezione della realtà. È così che le parole utilizzate diventano veri e propri strumenti per conoscere gli schemi neurologici diversi dai nostri, siano essi tipici o atipici.
Sapere cosa si intende per neurodiversità e come non scadere in facili generalizzazioni è certamente importante, ma quali sono le ripercussioni pratiche sul mondo scolastico? Gli insegnanti sono tra le prime figure tenute a valorizzare le differenze tra alunni, cercando di potenziare i punti di forza di ciascuno e appianare le difficoltà date da situazioni di partenza differenti.

Creare un ambiente inclusivo è il primo passo per fare in modo che tutti gli alunni possano apprendere in libertà. In aggiunta, conoscere gli schemi specifici degli alunni neuroatipici permette di costruire un percorso educativo personalizzato, in linea con quanto promosso dalle linee pedagogico-educative nazionali. Tracce di questo modus operandi si trovano ad esempio nella legge 170 del 2010, che predispone la creazione di Piani Didattici Personalizzati e l'utilizzo di strumenti compensativi e misure dispensative.
Un elemento fondamentale nell’approccio con gli studenti neuroatipici è cercare di dare loro consapevolezza dei mezzi specifici che possono utilizzare, nonché degli schemi di apprendimento che la loro mente segue – sia in fase di comprensione che in fase di memorizzazione. In questo modo potranno accogliere gli aspetti tipici del loro funzionamento neurologico senza viverli come deficit.
Articolo di Nina Komadina, content creator.